Tornerò a Phnom Penh.
L’ho detto a Marco ieri sera: “Tu fa come vuoi, ma io
tornerò a Phnom Penh”.
Ci sono posti in cui passi quasi per caso. E sembrano uguali
ad altri. Li affronti come fa ogni turista, con cautela. Cominci a riconoscere
le strade. Ti tieni stretta la borsa nei tuc-tuc.
“Please, attention! You are from Italy, aren't you?”
E poi esci nel caldo del pomeriggio. Un’uscita a tempo.
Marco che dice:
“Non farmi stare in pensiero, entro un’ora cerca di essere qui”
E batte il dito sull’orologio come si fa con un bambino quando si prova ad
essere severi.
Io esco dalla stretta porta che dà sul vicolo. La macchina
fotografica sbatacchia sulla pancia.
Dietro di me il mellifluo sguardo del tuttofare dell’hotel.
Mi sento meglio adesso, conto le traverse. La gente vive sui
marciapiedi. Catini, pentole, piatti, vassoi, cesti, fuochi. La gente di Phnom
Penh cucina piccole conchiglie o lumache. Poi le trasporta in equilibrio in
grandi vassoi. Ad ogni angolo di strada c’è carne da seccare al sole stesa su
foglie di banano. E persone che si fanno tagliare i capelli.
La gente nella stagione secca arriva dalle campagne. I
bambini girano intorno ai genitori. Tutti vendono.
Io mi sporgo in mezzo
ai banchi, fotografo chiedendo scusa.
La gente mi degna appena. Turista stupida, sorry, me lo dico da sola.
Attraversare la strada, una di quelle principali, è
un’impresa. Le moto che si attorcigliano intorno alle auto, i tuc- tuc che
scappano da tutte le parti.
Niente strisce, niente semafori.
D’accordo non posso aspettare, la mia uscita è a tempo. Mi
butto, accanto a un vecchio con la faccia nodosa di una noce. Non so come ma
sono dall’altra parte della strada, lungo il viale che porta al palazzo reale
dove i negozi sono all’occidentale. E ci
sono alberi di Natale e festoni ad anticipare una festa come la marmellata
sulla minestra.
Entro veloce in qualche negozio, mi prendo gelate di aria
condizionata.
Arrivo nella piazza davanti al palazzo reale. Famiglie intere che vendono fiori bianchi per
il lutto.
E’ morto il re.
Un re che non abitava più qui.
Due poveretti in carrozzella chiedono l’elemosina. Le gambe
polverizzate dalle mine antiuomo.
Dove sarà l’uomo all’angolo di via Samdach che ieri vendeva
gli aquiloni?
Oggi c’è solo la sua bici e un aquilone aperto, con la coda
di drago arancione che sventola all’aria che risale dal Mekong.
C’è il suo amico, quello del banco di ananas che lo va a
chiamare.
“Un aquilone, sì come quello aperto che sta sulla
bicicletta” chiedo.
Non ne ha uno nuovo. Di quel colore c’è solo quello lì.
“O. K.”.
Lo prendo anche se è quello esposto: l’ho già visto con la
mente volare alto nel prato vicino a casa mia, in un giorno di aprile, però
bisogna che ci sia il sole. Forse riuscirò a farlo alzare.
Riattraversare boulevard Norodom sembra più facile adesso.
Riconto le traverse. Mi fermo a comprare due mangostani e un grappolo di
longan. Il palmo della mano aperto perché il venditore si tenga i Riel.
Un sorriso che poi è un saluto che poi è un incontro.
Stasera andremo a mangiare da Friends. I ravioli di spinaci
più buoni che in Italia.
Ma quello che resterà di più negli occhi sarà la gente
seduta nella sera, le centinaia di persone nelle sedie di plastica bianca intorno ai tavolini, a mangiare. Tutta la
città di notte è un’enorme mensa.
Ci siamo persi il lungo fiume verso sera, dove gli edifici
coloniali hanno stretto un patto con il passato.
Ci siamo persi il tempio Wat Phnom.
Ci siamo persi una cena al Malis . C’è scritto nella guida
che è immancabile.
“E poi Marco, io ci ho provato ieri a farlo volare nel campo,
l’aquilone. Sarà stato il vento o il sole che non scalda abbastanza e ti giuro
che la corsa mi pareva giusta. Ma le
code arancioni sembravano per un attimo prendere fiato, poi si afflosciavano in
un intrico di fili. Ci sono cose che non reggono l’inganno.
"Sai che ti dico? Tornerò a Phnom Penh.”
Autore: Luciana Buttignol
Post correlato: Tour individuale con agenzia locale o tour operator italiano?
Autore: Luciana Buttignol
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