Immagine dal film |
Volevo parlare di blush e ne parlerò nel prossimo articolo. Ma ieri sera ho visto il film Swallow che mi è piaciuto molto. Uno di quelli che fanno riflettere, nelle mie corde.
Cavolo, mi sono detta proprio un bel film con un finale che soddisfa, che speri succeda ma temi non succeda.
Ne parlerò dando del voi. In Sicilia quando ci si rivolge ad un pubblico amico si dà del tu, al singolare. E’ certamente più diretto e coinvolgente ma io vivo al nord, sono del nord per cui userò il voi (chissà perché mi ha tentato il tu?).
Il film è classificato come thriller ma thriller non è. Forse sono le atmosfere, il succedersi degli avvenimenti in modo lento e sospensivo in cui si teme il precipitarsi continuo della situazione. La protagonista è in pericolo (una bravissima Haley Bennet).
In qualche recensione l’ho visto classificato come horror. Ma dove? Solo perché si mostrano piccoli frammenti di manovre chirurgiche?
Ormai le vediamo dappertutto, o forse è l’orrore della situazione in sé? Ma anche quella la vediamo dappertutto.
Swallow vuol dire inghiottire, boccone ma vuol dire anche rondine. E senz’altro il titolo strizza l’occhio a questa dualità.
Hunter, la protagonista, è una donna come tante. Con un passato traumatico alle spalle, come tante, con un marito assente, come tante.
No, io non definirei la sua una situazione eccezionale. Eccezionale è la sua reazione, la sua ribellione. Che poi è forza.
La mente in noi donne è un rifugio, molto più che negli uomini. La nostra impossibilità di reagire fisicamente ci porta a sezionare il pensiero, a trovare soluzioni.
E non è giusto che questo ci classifichi negativamente: disturbate mentali.
La nostra è una strada che conosciamo, da secoli. Come un pugno dato da un uomo in un momento di rabbia. Eccessivo? Forse. Non più sbagliato.
Hunter ha dei suoceri ricchi e stronzi. Che stravedono per il figlio e l’impresa di famiglia.
La nuora (Hunter) è una appendice. Ma succede in tante famiglie.
Hunter ha una bella casa e fa la parte che hanno fatto da sempre le donne. Pulisce, cucina, ozia.
Non viene ascoltata da nessuno. Se credeva di trovare nel matrimonio e nell’amore un balsamo per le sue ferite, si è profondamente sbagliata e l’ha capito. Però è come pietrificata nel suo ruolo. Poteva dare un pugno come appunto avrebbero fatto tanti uomini (forse il compagno avrebbe capito) e provare a trovare la sua strada. Poteva mostrare palesemente le ingiustizie e difficoltà. Non lo fa, continua in quel ruolo zoppo, si mette una maschera a copertura di quello che è veramente. Ma mai la maschera ci fa diventare quello che non siamo. Le persone ci devono amare/vedere senza trucco. E dobbiamo sentire il diritto di essere accolte così.
Quando Hunter parla il suo discorso sfuma negli interventi degli altri che cambiano argomento. E’ successo spesso anche a me.
Io credo che dobbiamo dare alle donne qualche responsabilità. Le reazioni degli altri sono spesso provocate dal nostro comportamento. La nostra passività, il lasciar correre deve essere consapevole. Non siamo vittime per principio.
Hunter resta incinta e non vuole. Non in quella situazione, non con un passato irrisolto. Si ribella inghiottendo cose: biglie, pile, chiodi, lame. Un po’ come tante adolescenti che si tagliano.
Coprire un male più profondo. Entra in quella che viene definita malattia mentale. Si tratta solo di una reazione a un disagio passato e attuale.
In alcune recensioni ho letto che una volta incinta Hunter riceve più attenzioni dai familiari. A me non sembra: lei viene sempre considerata allo stesso modo. Non il figlio che ha in grembo naturalmente.
Questo è un film sull’aborto. Sul diritto di una donna di liberarsi di qualcosa che non vuole, che è stato imposto e che la obbligherà ad una vita con la maschera.
Molto esplicativa la scena finale del film in un bagno pubblico con tante donne giovani che entrano ed escono.
Le sole persone che aiutano Hunter sono una psicologa “prezzolata” dai familiari e un badante siriano che dice: “In guerra non abbiamo di questi problemi: abbiamo già abbastanza difficoltà nel cercare di restare vivi”.
Poi bellissima la scena in cui Hunter cerca protezione al dolore rifugiandosi sotto il letto e lui (il badante) va a raggiungerla in quel rifugio e restano abbracciati. Una difesa contro la guerra.
Sarà lui ad aprire la porta della gabbia aiutandola a fuggire quando il marito e i suoceri vorrebbero rinchiuderla in un manicomio (può cambiare nome, ma quello è).
Compresa l’irrecuperabilità del rapporto matrimoniale e perdonato il padre (suo) Hunter si riprende la sua vita.
Eliminando non se stessa ma il figlio mai voluto, frutto di una Hunter che non c’è più.
A differenza delle scene cruente di ingoio e estrazione degli oggetti, l’aborto è più semplice, pulito, qualche pillola. Sangue sul water, ed è tutto finito.
Un codino nei capelli al posto del carrè bon ton, uno zainetto alle spalle (così come le varie lame, chiodi, ecc.) e si riparte.
Film da vedere assolutamente.