Il deserto si respira da lontano,
già dalla costa del mare più vicino. Anche
se, visto dal finestrino di un aereo che sta atterrando, il deserto non è altro
che quello che si vede in tante
cartoline, in tanti documentari e nei depliant. Ha una forma ma non ha uno
spirito.
E’ per questo che per conoscere
il deserto devi essere lì.
Un viaggio è fatto di odori, di colori, di luci, di caldo, di freddo, di
ruvidezze e di persone.
A volte di contrattempi, imprevisti,
inconvenienti.
Un viaggio è fatto di cappelli
strani.
Sì, c’è stato un periodo della
mia vita in cui in ogni viaggio indossavo un cappello stravagante. Con gran imbarazzo dei miei familiari, e a ragione, adesso che rivedo le fotografie!
In Tunisia indossavo un
incredibile basco alla Che Guevara, un enorme UFO parcheggiato sopra 1 metro e 55
di altezza!
A volerci riflettere, un motivo
ci sarà stato, dopo tutto anche i re si mettono la corona nelle cerimonie.
Forse per me il viaggio era davvero qualcosa da consacrare.
Il deserto che mi piace non è proprio quello con le classiche dune. Quello
ha un colore arancione invadente, non
lascia spazio alla mia fantasia e poi lo sguardo non si perde, il vento spezza
il suo suono e a volte non trova risonanza
, i piedi affondano, e un po’ ti sembra
di essere al mare.
Il deserto che mi prende, che mi
imbambola, che mi cattura è quello roccioso, quello dei grandi spazi, dei
grandi silenzi, del vento che sibila fra i pali di una tenda in mezzo al nulla e la nostra guida che dice con passione:
« Ascoltate… anche il deserto ha
la sua voce e non è sempre uguale.
Perché bisogna chiudere gli occhi e annusare e lasciarsi andare».
Come in uno skateboard, come nei
pattini, senza timori. Affidati, abbandonati. Sciolti.
Mi piace il deserto un po’
grigio, quando le rocce si mescolano alla sabbia gialla e al verde degli
sparuti arbusti che faticano ad attaccarsi, a resistere. E c’è sempre qualche
cane che corre, chissà da dove viene, chissà di chi.
E una tenda di beduini piena di
bambini che ti vengono incontro in cerca di un soldo, di un gioco, di una
penna.
Hanno capelli impossibili, masse
aggrovigliate che il pettine da anni ha dimenticato e che neanche il miglior
balsamo della nostra pubblicità riuscirebbe a districare.
Non peggiori però dell’UFO atterrato sulla mia testa…
Il deserto è bello al tramonto,
dicono, ed è vero. Però io ricordo il tramonto sul viso di una bambina che si
mangiava con gli occhi la mia maglietta con i brillantini. Se potessi tornare
indietro gliela regalerei.
Chott el Jerid, è un mare di sabbia sopra un lago salato, piatto e
lunare se non fosse per i colori aranciati, per il cielo blu, per i miraggi,
per le carcasse di altre auto abbandonate lungo il percorso.
Solo una tavola interminabile di sabbia, senza un
niente all’orizzonte, senza un punto a cui arrivare.
Il deserto che amo è quello un po’ montuoso, scavato da
canyon in cui la roccia nuda si stria
dei colori degli anni, dei ricordi di fiumi prosciugati e la fatica della
salita, della natura, l’impervietà del luogo diventa padrona e si libera del
superfluo.
Mi piace il deserto in cui il
vento parla, secco e aspro ed ha una sola voce.
E poi ci sono momenti, immagini che la mente ha
conservato, fotografie di una sensazione, di un ricordo: io e mio figlio che nuotiamo alle due del
pomeriggio appesantiti, accaldati nella piscina di Tozeur. E il caldo è
opprimente, il deserto fuori è assolutamente se stesso. E mentre dentro le
persone sono tutte accasciate sui cuscini di cuoio, alcuni a fumare il
narghilè, noi siamo gli unici in
questa acqua che sbeffeggia l’ambiente circostante o forse
lo incontra.
Un momento di unione, di condivisione, che ricordiamo
entrambi.
Disturbato dalla domanda di un signore francese che ci chiede:
« C’est à vous, ce chapeau?»
E si fa fresco
sventagliando l’assurda astronave bianca che mi ero tolta dalla testa per fare
il bagno.
Jott el Jerid
Autore: Luciana Buttignol