lunedì 29 agosto 2016

UN VIAGGIO, UN DESERTO, UN CAPPELLO





    

      Il deserto si respira da lontano, già dalla costa del mare più vicino.  Anche se, visto dal finestrino di un aereo che sta atterrando, il deserto non è altro che  quello che si vede in tante cartoline, in tanti documentari e nei depliant. Ha una forma ma non ha uno spirito.
E’ per questo che per conoscere il deserto devi essere lì.
Un viaggio è fatto di odori, di colori, di luci, di caldo, di freddo, di ruvidezze e di  persone.
A volte di contrattempi, imprevisti, inconvenienti.
Un viaggio è fatto di cappelli strani.
Sì, c’è stato un periodo della mia vita in cui in ogni viaggio indossavo un cappello stravagante. Con gran  imbarazzo dei miei familiari, e a ragione,  adesso che rivedo le fotografie!
In Tunisia indossavo un incredibile basco alla Che Guevara, un enorme UFO parcheggiato sopra 1 metro e 55 di altezza!
A volerci riflettere, un motivo ci sarà stato, dopo tutto anche i re si mettono la corona nelle cerimonie. Forse per me il viaggio era davvero qualcosa da consacrare.
Il deserto che mi piace non è proprio quello con le classiche dune. Quello ha un colore arancione  invadente, non lascia spazio alla mia fantasia e poi lo sguardo non si perde, il vento spezza il suo suono e a  volte non trova risonanza , i piedi affondano, e  un po’ ti sembra di essere al mare.
Il deserto che mi prende, che mi imbambola, che mi cattura è quello roccioso, quello dei grandi spazi, dei grandi silenzi, del vento che sibila fra i pali di una tenda in mezzo al nulla e  la nostra guida che dice con passione:
« Ascoltate… anche il deserto ha la sua voce  e non è sempre uguale. Perché bisogna chiudere gli occhi e annusare e lasciarsi andare».
Come in uno skateboard, come nei pattini, senza timori. Affidati, abbandonati. Sciolti.
Mi piace il deserto un po’ grigio, quando le rocce si mescolano alla sabbia gialla e al verde degli sparuti arbusti che faticano ad attaccarsi, a resistere. E c’è sempre qualche cane che corre, chissà da dove viene, chissà di chi.
E una tenda di beduini piena di bambini che ti vengono incontro in cerca di un soldo, di un gioco, di una penna.
Hanno capelli impossibili, masse aggrovigliate che il pettine da anni ha dimenticato e che neanche il miglior balsamo della nostra pubblicità riuscirebbe a districare.
Non peggiori però dell’UFO atterrato sulla mia testa…
Il deserto è bello al tramonto, dicono, ed è vero. Però io ricordo il tramonto sul viso di una bambina che si mangiava con gli occhi la mia maglietta con i brillantini. Se potessi tornare indietro gliela regalerei.
Chott el Jerid, è un mare di sabbia sopra un lago salato, piatto e lunare se non fosse per i colori aranciati, per il cielo blu, per i miraggi, per le carcasse di altre auto abbandonate lungo il percorso.
Solo una  tavola interminabile di sabbia, senza un niente all’orizzonte, senza un punto a cui arrivare.
Il deserto che amo è quello un po’ montuoso, scavato da canyon  in cui la roccia nuda si stria dei colori degli anni, dei ricordi di fiumi prosciugati e la fatica della salita, della natura, l’impervietà del luogo diventa padrona e si libera del superfluo.
Mi piace il deserto in cui il vento parla, secco e aspro ed ha una sola voce.
E  poi ci sono momenti, immagini che la mente ha conservato, fotografie di una sensazione, di un ricordo: io  e mio figlio che nuotiamo alle due del pomeriggio appesantiti, accaldati nella piscina di Tozeur. E il caldo è opprimente, il deserto fuori è  assolutamente se stesso. E mentre dentro le persone sono  tutte accasciate  sui cuscini di cuoio, alcuni a fumare il narghilè, noi  siamo gli unici in questa  acqua  che sbeffeggia l’ambiente circostante o forse lo incontra.
Un momento di unione, di condivisione, che ricordiamo entrambi.
Disturbato dalla domanda di un signore francese che ci chiede:
« C’est à vous, ce chapeau
E  si fa fresco sventagliando l’assurda astronave bianca che mi ero tolta dalla testa per fare il bagno.

 
        
             Jott el Jerid


Autore: Luciana Buttignol

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