ANDATA E RITORNO
Nonna Angela era vestita di nero quando salì
sul treno alla stazione di Porretta.
Si era nel 1939
e lei accompagnava i suoi padroni che si
stavano trasferendo a Pistoia.
Nei suoi
racconti quel viaggio, che poi è il viaggio, raccontava di cassoni, bauli neri
col lucchetto che raccoglievano masserizie, tende, arredi che avrebbero
adornato una nuova casa.
Non la sua,
però. La sua era una casa bassa di Porretta in un cortile scalcinato che
talvolta faceva da aia per gli animali che scappavano dalla stalla vicina.
Era il suo primo
viaggio in treno e lei, vedova di un ferroviere, se ne vantava.
“Il biglietto me
l’hanno pagato” diceva. “Anche se io avrei potuto viaggiare con lo sconto di mio marito”.
Mi parlava di prati
che dal finestrino scorrevano, acque intraviste tra fronde di alberi che non si
lasciavano catturare.
Nonna Angela
ritornò dopo due mesi. Ma il viaggio del ritorno non fu come quello
dell’andata.
Era inverno, il
buio nascondeva tutto e i finestrini rimbalzavano le facce dei passeggeri.
Un fagotto
con pane e cotechino da scartare tra le
borse, sul sedile del treno.
“ La padrona,”
ricordava lei. “Mi voleva bene”.
Al suo ritorno se ne andò
da certi parenti in Veneto. La guerra si avvicinava.
Trovò una casa
in affitto vicino alla ferrovia dove il figlio ci portò anche la moglie una
volta maritato.
Fu lì che nacqui
io. Con la finestra che dava sulla rete che recintava i binari.
L’odore di
carbone e di traversine, di attese e del fischio del treno.
Più tardi
costruirono un cavalcavia e io correvo veloce fin sopra il colmo e guardavo
giù. I treni e la stazione.
Gente che
partiva, calore di sedili. Tutti gli odori raccontati dalla nonna, tutti gli
odori che sentivo.
Mi immaginavo
seduta in uno scompartimento vuoto, in una umida giornata autunnale dove le
cose sono più facili da lasciare. E la nebbia che snatura i luoghi mi avrebbe
accompagnato insieme al treno che partiva verso lo sconosciuto, l’altrove.
Nonna Angela, mi
voleva bene, talvolta me lo sento ancora addosso. Come un regalo perduto.
Mi parlava del
nonno e dei treni, di quella volta che
al passaggio a livello aveva chiuso le sbarre ai fascisti che stavano
inseguendo un gruppo di oppositori.
“ Ma quanto
tempo, li ha fatti aspettare?” chiedevo.“E quando poi il treno non si è visto
arrivare?”
“ Oh, le sbarre
le ha alzate dopo, a certi ordini non ci si può rifiutare, si può solo
tergiversare. Far passare un po’ di tempo. A volte basta”.
E così ho
imparato anch’io a tergiversare. A ritardare quel tanto che basta a permettere
a un treno di partire. Da Mestre a Bologna, da Bologna a Porretta.
In una stizzosa
giornata primaverile ho fatto il viaggio a ritroso. Alla ricerca di luoghi
sentiti. Per poco.
La casa, quella
con l’aia, non c’era più. Al suo posto c’era un supermercato. Così mi ha detto
un parente (suppongo) che ho ritrovato. Ci siamo parlati da estranei,
imbarazzati.
Due vite diverse
che non si sarebbero più incontrate. Fra noi solo un po’ di cortesia.
Il calore dei
ricordi che si smarrisce nel vuoto.
Poi, prima di
andarmene, le sue parole:
“Ma sì, mi viene
in mente suo nonno, non era quello che ha fermato il treno?”
Un sorriso che
sale dal profondo e mi arriva agli occhi:
“ No, ha solo
abbassato le sbarre, sa nella vita ogni tanto è importante anche tergiversare”.
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