giovedì 5 luglio 2018

VERSO CASA: GREA DI CADORE








Stazione di Calalzo di Cadore
      Se do uno sguardo alla mia vita di viaggiatrice sono consapevole di aver visto luoghi che da bambina mai avrei immaginato di raggiungere. Ho preso tanti aerei e ho attraversato molti aeroporti. Ho vissuto quel particolare momento in cui le porte automatiche dell'uscita  si aprono e per la prima volta tocchi una terra da conoscere. Poi arriva il tempo in cui un po' per l'età o per altri motivi ti fermi e vai in cerca dei luoghi del cuore. Di paesaggi cresciuti come edera dentro di te, che avevi accantonato. Ricordi intensi legati a suoni, a odori, a colori, ad un'altra stagione.
Calalzo visto da Grea



    Grea era (ed è) un paesino del Cadore che guardava da un lato il lago e dall’altro il sole. Una strada in ripida salita che lasciava la strada principale e si arrampicava sconnessa verso un gruppo di case.
All’inizio, quando ero piccola (la prima volta avevo sei mesi),  il vecchio taxi della stazione montana caricava noi bambini e i bagagli e ci portava fino a destinazione. Gli adulti andavano a piedi. L’auto, a portarci tutti  proprio non ce la faceva.
Più tardi quando  papà aveva la seicento, e non si può dire fosse proprio un bravo guidatore, la macchina ad un certo punto si fermava,  noi bambine e la mamma   scendevamo e  spingevamo.
Che sollievo se partiva alla prima spinta! Era come veder sollevare una mongolfiera: il nylon sul tetto si gonfiava sopra le valige ed a fianco la gabbia del canarino che nessuno a casa ci teneva.
Grea era fresca: grosse tazze di caffè latte dolci  al mattino seduti su lunghe panche di legno.
E l’odore! Qualcosa di marchiante, di antico.  Come la fontana, messa in una piazzetta che  era l’unico posto un po’ in piano del paese.
Grea - Fontana del paese


Le nostre mani di bimbi che si immergevano nell’acqua fredda dopo una passeggiata, con l’occhio attento per paura che arrivasse “Pellegrin”, il mandriano. Che senz’altro ci avrebbe sgridato perché lui lì ci lavorava e se l’acqua si sporcava le mucche non bevevano.  Allora ci  avrebbe rimproverato con la rudezza  selvatica  di certi pastori e dei contadini.
Ogni anno non si era mai soli: c’erano sempre nonne e poi zie e cugini che stavano con noi o in una casa vicina.
E papà che durante l’anno era sempre silenzioso, là si animava. Grea era  la sua vitamina: si attivava, diventava un capo,  un punto di  riferimento. E faceva amicizia con la gente del paese. C’era  Toni della fabbrica di occhiali. Sior Bepi, che ci portava certi pugnetti di funghi per il risotto come un tesoro. La signora Lucia: come cucinava le salsicce lei, non le cucinava nessuno. E Giovanni che raccontava dell’emofilia, la malattia del paese, perché in una comunità così piccola le unioni avvenivano tra portatori e così si trasmetteva ai nuovi nati.
Il paese nei primi anni era vivo: c’era il negozio di alimentari, la macelleria, il giornalaio che vendeva orologi da muro tirolesi e perfino la merceria. E si intrecciavano amori.
Il sabato sera le cugine grandi, con i capelli cotonati e le gonne a palloncino, ballavano in uno stanzone della cooperativa. E noi piccole a spiare, a spettegolare, a inventare, a immaginare.
C’erano prati profumati di ciclamini (solo a Grea ce ne sono così tanti ancora oggi) che i primi anni scordavamo in treno al ritorno. C’era la chiesetta sul bosco che faceva  da crocevia per i sentieri: giù verso il campo sportivo con i cespugli di ginepro e a sinistra verso il ruscello.

Perché solo a Grea ci sono così tanti ciclamini?




Chiesa sul bosco di S. Antonio - Grea


Anno dopo anno Grea metteva radici nei nostri piedi (le vacanze duravano un mese e più) con quel legame che unisce profondamente uomo e natura. Cuore e emozioni. Luoghi conosciuti e passioni. Una appartenenza che diventava una pretesa.
Ma il fiore all’occhiello del paese era la veduta dal colle della chiesa: di giorno una cartolina con il lago, il paese, le strade, le montagne intorno. Di notte un presepio rubato al Natale, un incanto di luci e lucine. Sotto un cielo stellato. Con l'accompagnamento dei grilli.







Chiesa di S. Leonardo Grea- sullo sfondo monte Tudaio

Quando si lasciava il paese verso la chiesetta di San Antonio, ricordo che papà guardava sempre l'ultimo  solido fienile  a sud con vista sugli "Spalti di toro", perfetto da riadattare. Ci diceva con rammarico:
« Ah se vincessi la lotteria, se riuscissi ad avere i soldi…»
Ma è anche vero che di anno in anno Grea si spegneva. Dapprima sparì la merceria, poi il macellaio  poi il tappezziere - quello perché aveva messo incinta Pinetta e di sposarla non ne voleva sapere-.
La strada nuova tutta larga  e piena di tornanti, fatta per facilitare  la gente ad  entrare in paese,  sembrava fatta invece per aiutarla ad  uscire: i giovani a studiare, gli uomini e le donne per lavorare nelle occhialerie della valle.
Il campo sportivo venne spianato degli abbeveratoi e delle panchine e fu oltraggiato con la costruzione di un rumoroso poligono di tiro. A ogni colpo di schioppo scappavano gli uccellini, le vipere a cui ci eravamo abituati e  le mucche di “Pellegrin” vennero  macellate.
Il sentiero per il ruscello franò durante una piena.





Lago Centro Cadore
Chiediamo sempre di Grea a parenti o amici che ci sono passati. E ne parliamo spesso fra di noi, con tanto amore. Siamo tornati per il funerale di Sior Bepi. E succede, in estate, di fare una scappata se si è nei dintorni per guardare il panorama dal colle della chiesa. E restiamo ancora lì ammutoliti e capita di girarsi e trovare inaspettati dei parenti che hanno avuto la nostra stessa idea, che è poi la risposta ad un richiamo. Una specie di dovere. Un onore  che si porta a qualcuno che è stato così dentro nella nostra vita, che è stato buono e adesso se ne è andato.

Spalti di toro
Grea in una cartolina d'epoca
Fienile dei sogni

Grea adesso, un po' come tutti i paesi di montagna che non hanno impianti sciistici, è un posto dove la villeggiatura estiva è andata scemando.
La vecchia fabbrica di occhiali abbandonata e distrutta, credo da un incendio, andrebbe abbattuta.
Villeggianti legati al luogo hanno ristrutturato  case e ci vanno in estate o per funghi.
Da lì partono alcune belle passeggiate come al borgo di Rizzios o a Domegge. Per non parlare poi della Croda rifugio Baion (salita impegnativa/950 m. di dislivello) dove alcune famiglie del paese hanno un Tabià con vista impareggiabile  sull'Antelao e Marmolada.
I ragazzi del posto miei coetanei non erano per niente di mentalità chiusa. Abituati ogni anno ad incontrarsi con turisti e famiglie della pianura erano moderni ed aperti.
Alcuni hanno sposato villeggianti di città ed io mi inchino di fronte a queste giovani che hanno lasciato Venezia o Padova per andare a vivere in un paese dove gli stimoli sono ben pochi. Sono comunque matrimoni che hanno funzionato.
Dieci anni fa siamo tornati in gruppo: parenti e amici legati al luogo. Con torte e un cartello di evviva abbiamo fatto una rimpatriata. E' stato una specie di pellegrinaggio con tante foto, ricordi e saluti.
Un bisogno di stringersi intorno agli affetti come solo questo paese fa sentire.